
GROTTE DE MOTIERS - 2010
Anno nuovo, nuove esplorazioni:
il carnet dei programmi è tutto scritto ed è giunto il tempo, siamo già alla
fine di gennaio, di cominciare, dipanando non solo il filo d’Arianna, ma anche
il robusto filo della speranza di portare a termine, con risultati rispettabili,
le mie adorare esplorazioni.
In questo periodo sto bene
fisicamente anche se devo riuscire a migliorare il tono muscolare quindi, a
parte la scarsità di fondi, intesi nel senso della pecunia, ce la posso fare.
Il primo obiettivo di quest’anno
è il sifone nella grotta di Motiers che attende dal settembre 2008, quando avevo
raggiunto i -125m a 456m dall’ingresso del sifone, e dove, spinto
dall’entusiasmo avevo lasciato le bombole nel fango della grotta, pronte per
essere riutilizzate come sicurezza, nella successiva esplorazione; peccato che
qualche problema fisico prima ed il tempo tiranno dopo, mi abbiano impedito di
ritornarci in breve termine.
Lunedì 25 gennaio 2010
L’amico Mosè si presenta puntuale alle otto del mattino a casa mia da dove,
organizzate le attrezzature, preparate le sacche speleo con i materiali,
ingoiato un piatto di pastasciutta cucinato da Bea, filiamo via verso la
svizzera francese. Erano le 13.00 quando siamo usciti dal mio cancello, sono le
18.30 quando arriviamo a Motiers non senza aver incontrato qualche intoppo
sull’autostrada: per diversi chilometri tutto intorno a noi è ancora ricoperto
di neve, fa un bel frescolino e del resto ci troviamo a 840m di quota.
Siamo in ritardo di 30 minuti e
gli amici svizzeri che ci aspettavano, si sono rintanati giustamente, al
bar-ristorante che si trova vicino all’ingresso della grotta: sono una piccola
squadra composta da Grégoire André, Isabelle Chouquet, Jean-Claude Page, Kwenani
Bolanz e Patrick Deriaz, eroicamente pronta ad aiutarci a trasportare tutto il
necessario fino al sifone.
I lavori effettuati in grotta in
quest’ultimo periodo per migliorare la progressione, rendono incredibilmente più
semplice il percorso fino al sifone, poiché si evita completamente di rimanere
intrappolati in tutta la fastidiosa parte fangosa chiamata “bourbier” in altre
parole pantano, camminando invece sui pioli di scale inchiodate a sbalzo,
orizzontalmente, alle pareti.
Attraversato un ponticello
incorniciato da una minacciosa cascata ghiacciata e trasportati in grotta tutti
i sacchi, in poco più di una ventina di minuti di progressione, prepariamo gli
erogatori ed i galleggianti sulle bombole che nel frattempo si sono arrugginite
superficialmente in qualche punto, sistemiamo il resto dei materiali e torniamo
verso l’uscita. Sono le 21.00 e siamo ancora in tempo per farci preparare
un’ottima fondue nel bar-ristorante vicino finché, a pancia piena, ci avviamo
verso casa di Patrick che purtroppo dista ancora quasi 100km.
Martedì 26 gennaio 2010
Colazione, sottomuta dentro una sacca, partenza per la grotta dove siamo attesi
da José Lambelet, da un cameraman Pascal Bourquin, della televisione Suisse
Romande, da un fotografo Perret Guillaume, e da un giornalista, Alexandre Bardet,
del giornale L’Express. Dopo le interviste e qualche foto esterna, lasciamo il
fotografo ed il giornalista ed iniziamo la progressione in grotta la cui
velocità è sintonizzata con il ritmo dettato dalle necessità di ripresa di
Pascal.
Finalmente ecco la sala, già
costellata dalle nostre attrezzature ed ora, con la nostra presenza, ravvivata
dai nostri rumori e dalle nostre luci. Iniziamo subito a preparare i rebreathers,
Megalodon per Mosè ed ibrido Copis-Megalodon per me; poi tocca alla telecamera
che viene sistemata nel nuovissimo scafandro Isotta, e finalmente tocca a noi
che ci prepariamo stando su un telo steso a mo’ di tappeto, per isolarci dalla
fanghiglia. Ancora qualche domanda ed è tempo di iniziare l’immersione:
indossati i rebreather, Mosè mi precede avviandosi verso l’acqua ma, giusto un
attimo, poco prima di arrivare alla vasca, scivola ed ahimè si lacera un
calzare. L’accesso non è per niente comodo e la presenza di fango, non aiuta a
rimanere stabili, tanto è che anch’io scivolo fortunatamente senza conseguenze
né per me né per l’attrezzatura. Il livello dell’acqua è molto basso rispetto
alla norma e, grazie alla topografia fatta durante le scorse esplorazioni,
sappiamo che possiamo superare senza problemi la fine del primo sifone. A Mosè
non basta il buco nel calzare in ogni modo parzialmente chiuso con un
semplicissimo elastico da Josè, ora anche la valvola di carico della sua muta si
mette a fare le bizze, tanto è che ormai carico di tutte le attrezzature, si
ritrova prigioniero della muta ormai troppo gonfia per essere gestita. Così per
oggi, egli è costretto a rinunciare all’immersione ed alle riprese. Io invece
parto e vado a posizionare le bombole alle differenti profondità: a -6m una
bombola da 10 lt. d’ossigeno, a -36m una bombola da 10 lt. di nitrox
36%O2-36%He, a -70m due bombole da 20 lt. contenenti una miscela 13%O2-75%He e
una 10%O2-80%He che serviranno per la progressione profonda; con me terrò per
emergenza, durante il rientro, una bombola da 12 lt. contenente una miscela
20%O2-70%He. La visibilità rispetto all’altra volta è molto ridotta perché in
tutta la galleria ci sono al massimo 4m mentre la temperatura dell’acqua in
compenso, rimasta costante, è di 7°.
Dopo 55 minuti quando riemergo,
chiedendomi Pascal se gli posso girare qualche scena in sott’acqua con la
telecamera di Mosè, torno giù fino ad una profondità di una decina di metri
riprendendo qualche parete ed inventandomi dei primi piani in un’acqua che ormai
è proprio intorbidata.
Mosè è dispiaciuto per come gli
sono andate le cose ma, in una grotta così fangosa, tutto è possibile e tutto fa
parte del gioco. Dopo i regolari 100 km, verso casa di Patrick, confortati da
Daniela nel corpo e nella nostra mente, con una cena a base di Raclette ed
ottimo vino, cadiamo nel letto in un sonno letargico.
Mercoledì 27 gennaio 2010
La giornata è dedicata alle riparazioni sulla muta di Mosè, alla sistemazione e
pulizia di tutto il resto e, nel pomeriggio, a qualche ora di relax al centro
termale di Yverdon les Bains, piscina all’aperto, sauna e bagno turco e, chi più
resiste, più ne fa.
Cena tranquilla questa volta,
perché domani sarà il gran giorno e non voglio rischiare una notte difficile con
lo stomaco intento a brontolare.
Servizio sulla Televisione Svizzera TSR (in francese)
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Giovedì 28 gennaio 2010
Mentre preparo il filtro radiale per l’immersione esplorativa ed insieme con gli
altri sistemo le mute ed i sottomuta nelle sacche, fuori i fiocchi sfarfallano
allegramente cosicché, quando usciamo, calpestiamo già cinque centimetri di neve
fresca e crocchiante. Apparentemente il tempo non sembra molto favorevole
tuttavia, questa situazione meteorologica, evita che si raggiungano le
temperature polari annunciate dalle previsioni svizzere. L’autostrada, chiusa
per un incidente, ci costringe a fare una piccola deviazione per la statale:
morale, siamo in ritardo sulla tabella di marcia.
Al solito bar-ristorante
c’incontriamo con Josè, Jean Claude Lalou, un altro cameraman Thierry. A
mezzogiorno abbandoniamo la luce diurna per le tenebre compatte della grotta e
velocemente, raggiungiamo il nostro sifone, dove il Copis ed il Megalodon ci
aspettano, sistemati su una comoda piattaforma naturale. Il rebreather Copis di
Mosè è pronto, mentre il mio Megalodon deve essere ancora completato con filtro
e testa opportunamente calibrati, prima dell’uso in acqua. L’assetto del
maialino, che con le più leggere nuove batterie al Litio è diventato positivo,
ha bisogno di regolazione, ma fortunatamente, quaggiù in grotta ci sono già i
piombi utilizzati per le esplorazioni di Jean Jacques Bolanz, che fanno al caso
nostro. Dopo qualche tentativo, provando piombi di varie dimensioni, otteniamo
un risultato così buono, che mi sento più che felice, perché finalmente
l’assetto risulta perfettamente neutro.
Ora mi devo preparare perciò
indosso la muta, rispondo a qualche domanda dell’intervistatore, mi accoccolo
sedendomi su un angolino del sasso ed attendo Mosè che, per ragioni di spazio,
si prepara dopo di me; è abbastanza veloce e comunque, qui dove mi trovo, non ho
tante possibilità di sudare. Mosè entra in acqua e si prepara a filmare la mia
discesa, vista dal pelo dell’acqua, avviandosi per raggiungere una zona limpida,
mentre io mi aggancio una bombola da 15 lt caricata con un 50%O2-20%He da
portare a -21m, la bombola da 12 lt da lasciare a -70m caricata con una miscela
20%O2-70%He ed una batteria che alimenterà il mio giubbetto elettrico.
Agganciato il maialino, sto per scendere in profondità quando scorgo Mosè che mi
segnala di fare dietrofront. In superficie mi informa che gli si è allagato un
guanto stagno e di conseguenza una parte del sottomuta. Lo sistema e dopo un
paio di minuti si riparte. Sono le 15.15 Per fortuna non ho perso più di tanto
la concentrazione; Non è la prima volta che mi capita di rientrare subito dopo
una falsa partenza per una punta e, come sanno bene coloro che scattano per la
partenza di una gara, non è una bella situazione, perché cala la concentrazione
ed aumenta il nervosismo. In questa grotta della Cascata a Motiers ho tuttavia
il vantaggio che il primo sifone da percorrere, ha poca profondità ed il tempo
che vi trascorrerò passandolo, sarà utile per recuperare il massimo della
concentrazione. Ci troviamo a -5m di profondità ed i fari della telecamera che
mi sta davanti, sono talmente potenti che mi accecano. La soluzione è, come ho
fatto altre volte, di evitare di guardarli procedendo senza vedere molto.
Superata una prima strettoia e poi una seconda, passo davanti. Non utilizzo il
maialino per avanzare lentamente e lasciare che Mosè mi segua riprendendomi ma,
essendo questa anche un’immersione esplorativa, non posso rispettare troppo le
esigenze documentaristiche.
Dalla luce che si affievolisce
intorno a me intuisco che Mosè è lontano, mi giro e lo vedo ad una decina di
metri da me: i fari così potenti, mi permettono ancora di scorgerlo anche da
questa distanza. E’ vero che è lontano, ma non è preoccupante perché è autonomo,
avendo con sé due bombole d’emergenza e non mi segnala nulla. Perciò continuo:
sono alla base del pozzo ed inizio a risalire verso la superficie dove ci sono
ancora 1,5 metri d’acqua per superare il collo, quanto basta per avanzare senza
problemi. Sopra di me l’aria ha preso il posto dell’acqua: rispetto all’ultima
esplorazione, il livello è di 4m più basso. Mosè non è più dietro di me. Filo
veloce nella stretta galleria fino alla profondità di -21m dove lascio la
bombola da 15 lt poi, a -36m, lascio la batteria e vado a raggiungere le bombole
da 20 lt a -70m. Lascio la 12 lt, prendo le due da 20 lt., e percepisco che sto
perdendo tempo prezioso ad una profondità importante; la scelta di portare le
bombole a questa quota è stata dettata dalla necessità di gestire il tutto da
solo, in due immersioni, e non dalla praticità.
Poco male perché riesco a fare
tutto: scendo giù nel pozzo e poi, con il maialino che è molto, forse troppo
veloce per questa morfologia, percorro la galleria, curando di non andare a
sbattere. Raggiunto il punto in cui avevo legato il filo la scorsa volta, cioè
un anno e mezzo fa, e che oggi, a causa del differente livello dell’acqua, è
meno profondo, solo -121m., mi fermo per collegare il nuovo filo dello
svolgisagola. Qui si comincia con la parte nuova. Lo sguardo in avanti vede la
galleria che sembra risalire, dove l’argilla è padrona; la visibilità di
conseguenza non è delle migliori, e preferisco, per essere più soft, lasciare il
propulsore meccanico e continuare al naturale con le pinne: sarò più lento ma
potrò osservare meglio la galleria e sicuramente intorbidire di meno. La
pinneggiata è decisa, il filo si svolge senza problemi e la galleria, che risale
un paio di metri, poi va giù di nuovo; metto qualche ancoraggio ogni tanto per
tenere il filo in posizione e mi godo le dimensioni non proprio enormi di 2m per
2m.
Sono trascorsi 21 minuti e forse
sono in grado di continuare ancora per 5 minuti: il freddo dell’acqua me lo
sento sulle mani, perché ho dei guanti di neoprene da 6mm a tre dita, non
stagni. Quando giungo in una sala -124m, vedo sopra di me un camino, mentre
davanti, continua la discesa. Il tempo a mia disposizione sta per scadere
perché, con questo tipo d’isolamento termico, non solo non posso rimanere in
decompressione a lungo, ma anche perché qui la visibilità non mi lascia molte
chances. Dal momento che risalire il camino provocherebbe, con le bolle,
inevitabilmente la caduta d’argilla, lo lascio per la prossima volta ed invece,
scendo. Trovo una strettoia di fronte a me, causata da un masso, mi avvicino, la
supero senza troppa fatica, e scendo ancora qualche metro. Credo che per oggi
sia sufficiente, ma scegliendo un ancoraggio per fissare il termine del filo,
una volta preparato il nodo, questo scivola via: la fretta è cattiva
consigliera. Essendo necessario non perdere altro tempo, perché immagino pessime
le condizioni di visibilità al rientro, lascio purtroppo il filo a penzoloni
sull’ancoraggio e con molta cautela, inizio il ritorno.
Avevo ragione: in qualche punto
si vede solo per una decina di centimetri, ma ho fiducia nel filo che seguo e
non rallento la pinneggiata.
La luce del maiale che vedo, mi
rallegra perché quasi ci sono: lo prendo, me lo aggancio e mi avvio verso la
prima tappa decompressiva a -91m. Sono trascorsi 33’. Mentre sono in attesa per
desaturare un po’ del gas accumulato, faccio un po’ di conti:
-134m è la profondità massima raggiunta
letta su un computer, mentre, sul secondo computer, il Galileo, la profondità
risulta di -138m. Il filo d’Arianna svolto conferma 65m di nuova esplorazione e
perciò, il totale delle gallerie allagate è di 521 m. di cui 170m di
progressione oltre i -100m. Continuando il ritorno, a -70m recupero anche la
bombola da 12 lt., perché in grotta non voglio lasciare nulla: domani devo
essere a casa, pronto per sabato per i miei allievi del corso trimix. Dopo 50’,
raggiungendo la batteria, mi sento confortato al solo pensiero del sollievo che
avrò quando sentirò il caldo del giubbetto elettrico riscaldare l’interno della
muta. Mosè m’illumina da sopra, mi raggiunge e mi fa segno di controllare dietro
al suo reb: guardo, e l’unica cosa che mi viene in mentre è l’alimentazione
dell’ossigeno, che effettivamente essendosi sganciata, rimetto a posto. Il buon
Mosè volonterosamente s’impegna a filmare anche se, purtroppo la visibilità in
questo punto si sta riducendo a 50cm. Le luci di Mosè si dissolvono e spariscono
insieme con lui, mentre io lentamente proseguo il ritorno con tutto il
materiale. Recupero anche la 15 lt a -21m, e la seconda batteria che Mosè mi
aveva collocato a -12m. Di nuovo le luci, richiamo l’attenzione con dei segnali
luminosi, e puntualmente Mosè ricompare. La visibilità per le riprese è troppo
scarsa e tanto vale che cominci a scaricarmi delle bombole rèlè da 20lt. Appena
compiuta l’operazione mi accorgo di risalire e dopo un metro, sono contro il
soffitto Chiedendomi il perché, siccome le bombole relè sono praticamente neutre
in acqua, capisco tutto osservando che, il moschettone al quale con un cordino
era agganciata una bombola da 15lt ed una batteria, è rimasto solo, con un
pezzetto di cordino nostalgicamente penzolante nell’acqua. Sono stato castigato
dalla mia stessa pigrizia, per non aver cambiato un cordino rimasto a marcire
per un anno nell’ambiente umido. Si è rotto il cordino e siccome per pigrizia
era attaccata solo con uno dei due moschettoni è caduta verso il fondo. Mosè si
sistema le bombole ed io scendo a cercare. Avendo la fortuna di trovare tutto a
6m sotto di me, raccolgo il malloppo e risalgo alla quota deco: stavolta sfrutto
gli elastici per attaccarlo ed uso due moschettoni. Tranquillo nel silenzio,
percepisco il gorgoglio di bolle che sfuggono da dietro e Mosè ancora in mia
compagnia, che da un’occhiata, mi segnala una perdita sul raccordo
dell’ossigeno. Riflettendo, ricordo che, prima di partire, ho cambiato la frusta
e che, per completare la modifica e per far quadrare i raccordi, ho smontato
tutto e mi devo essere dimenticato di bloccare con le chiavi il dado che tiene
lo Swagelok sulla frusta. Ancora una volta, ho la dimostrazione che è meglio
iniziare un lavoro e finirlo subito e non disperdere l’attenzione caricando
contemporaneamente le bombole, lavorando sui raccordi, dando retta al vicino.
Al momento ho comunque
abbastanza ossigeno per rifare la stessa immersione e far funzionare il reb in
elettronico ma, preferisco il silenzio e continuo in manuale. Deco quasi finita,
risalgo fino a -1m e poi ridiscendo a -24m prima di affrontare gli ultimi 80m di
galleria per arrivare alla fine del sifone. Dopo 2h30’ riemergo nella sala dove
i miei compagni d’avventura mi annunciano una sorpresa: una bionda sirena assai
carina mi guarda e mi sorride. E’ una giornalista di una radio locale entrata in
grotta per intervistarmi.
Lo spazio è affollato perché
molti ragazzi volonterosi ed entusiasti, usciti dal lavoro, sono arrivati fin
qui per dare una mano a trasportare le attrezzature. Vi ringrazio tutti! Didier
Schurch, Grégoire André, Jean-Claude Lalou, José Lambelet, Marc Genoux, Marilise
e Philippe L’Eplatenier.
Fuori dalla grotta, nel buio,
rompo il ghiaccio del torrente e mi accuccio nella pozza d’acqua, per togliermi
un po’ del fango che ricopre abbondantemente la muta.
Alle 21.30 al bar, ci
riscaldiamo bevendo qualche cosa in compagnia, poi andiamo a cena da Cristiane,
la moglie di J.Jacques dove ci scaldiamo anche i cuori.
Si parte la notte stessa verso
casa che raggiungiamo in cinque faticose ore di auto, alle sei del mattino.
Riposeremo quel tanto per ritrovare l’energia di scaricare e di lavare le
attrezzature con l’idropulitrice: sul terreno rimarranno i resti del fango
svizzero.
[Servizio su ARCHINFO.CH (in francese)]
[Articolo su RTN (in francese)]
Venerdì 29 gennaio 2010
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